mercoledì, aprile 20, 2005

La Chiesa e la "Finanza bianca".

Nel nuovo libro dell'economista Giancarlo Galli le luci e le molte ombre della finanza cattolica
Banchieri di Dio o del diavolo?

NICOLA LEONI
Banchieri di Dio, come vorrebbero fare pensare le loro radici culturali cattoliche, o banchieri del diavolo, come invece farebbero credere i non isolati scandali e l'immagine che di loro hanno gli anticlericali, che li dipingono come ipocriti maneggioni? Si tratta naturalmente dei finanzieri cattolici, la cui storia dal dopoguerra a oggi viene raccontata dall'economista Giancarlo Galli nel suo ultimo libro, Finanza bianca - La Chiesa, i soldi, il potere, edito da Mondadori. Galli non è certo tenero nei confronti di coloro, in un mondo che mescola Chiesa, economia e politica, si sono resi protagonisti di scandali e storture, ma nemmeno prevenuto nei confronti della finanza e dei finanzieri cattolici in quanto tali.
Il volume segue la storia dell'economia italiana, ma anche vaticana e mondiale, dalla nascita della Repubblica italiana, con la presa di potere della Democrazia Cristiana anche nel mondo finanziario, un'operazione orchestrata da Amintore Fanfani, passando per le vicissitudini dell'Istituto per le Opere di Religione, la banca della Santa Sede, raccontate dallo stesso presidente, Angelo Caloia, per l'egemonia nella finanza italiana di personaggi, che si dichiarano cattolici, come Antonio Fazio, governatore della Banca d'Italia, Cesare Geronzi, leader di Capitalia, e Giovanni Bazoli, presidente di Banca Intesa. Fino ad arrivare ai crac dei bond argentini, Cirio e Parmalat, scandali in cui le banche cattoliche hanno una gravissima responsabilità.
Ma il protagonista del libro di Galli è proprio il leader dello Ior, "sopravvissuto" alle numerose trappole tesegli dall'ambiente curiale romano e anche da qualche porporato, riuscendo nel contempo a risanare la banca vaticana dopo la gestione di monsignor Marcinckus. È «tutto del cardinale Casaroli il merito della rivoluzione allo Ior». Paul Marcinkus è stato «facilone e mal consigliato» - ma non si mise una lira in tasca - e non è vero che fosse stato sostenuto da Paolo VI. Monsignor De Bonis organico a Marcinkus e non suo antagonista, come invece lo percepirono i cronisti dell'epoca, anzi: suo principale "cattivo consigliere".
Angelo Caloia, dall'89 alla guida dello Ior, dopo lo scandalo internazionale che rischiò di travolgere la banca del Papa, si racconta a Galli nel capitolo più ampio e interessante del libro dedicato ai finanzieri cattolici.
Caloia, «pio e riservato cattolico lombardo», 65 anni, una moglie irlandese, quattro figli e quattro lauree, solitamente abbottonatissimo, rompe il silenzio che lo ha distinto in questi anni. Molto racconta e molto altro lascia intuire dello scandalo della banca del Papa, del risanamento voluto da Casaroli e osteggiato dal vecchio gruppo dirigente - non solo Marcinkus e de Bonis, ma anche il direttore generale Luigi Mennini e il ragioniere capo Pellegrino De Strobel, travolti dall'inchiesta giudiziaria e con i passaporti ritirati - e delle fasi successive e meno note alla cronaca, dalla stesura del nuovo statuto dello Ior, a come ne sia rimasto alla guida nonostante due tentativi di estrometterlo.
Ma Caloia è riuscito anche al temuto "braccaggio" di Mani Pulite, al "tintinnio di manette" che risuonò anche per lui durante l'inchiesta Enimont, la "madre di tutte le tangenti" che lambì senza conseguenze la banca del Papa nel '93, a causa di 108 miliardi in certificati del Tesoro transitati dallo Ior attraverso Luigi Bisignani, «che presso la Banca vaticana disponeva da anni di un conto personale, chiedendo di accreditare il ricavato su un contro cifrato estero».
I «titoli erano buoni e il cliente affidabile», tant'è che lo Ior ne uscirà pulito, ma quando Caloia riceve una telefonata del procuratore capo Borrelli ha «una gran paura di sentir tintinnare le manette» anche se «la coscienza era del tutto a posto: pur tranquillo - racconta - mi premunii, agendo d'impulso: da banchiere del Vaticano, cercai conforto e riparo là...'». Caloia infatti si appella al fatto di lavorare per uno Stato estero e di dover consultarsi con questo, cala a Roma da Milano, si rifugia in Vaticano e lì, dopo un colloquio con l'amico monsignore Renato Dardozzi, chiede la rogatoria internazionale. Così la situazione si risolve con uno scambio di lettere in cui lo Ior fornisce ogni informazione e chiarisce tutto.
«Nemmeno oggi sappiamo a chi erano destinati quei bonifici - riferisce Caloia - peraltro chi aveva impartito l'ordine, Bisignani, era un vecchio cliente, che avevamo ereditato».
La lezione serve al banchiere a «completare l'opera di rinnovamento», anche setacciando i clienti dello Ior per evitare «responsabilità pregresse». E oggi Caloia considera quel "tintinnio di manette" «un bene: lo Ior ritrovò totale fiducia» e fu impresa più difficile nella Chiesa e tra i religiosi che presso l'«establishment finanziario, italiano e internazionale».
Vittorioso grazie all'appoggio di Casaroli nello stendere il nuovo statuto, promulgato da Giovanni Paolo II nel '90, e «toltosi dal cuore il peso delle accuse di riciclaggio» nel '93, Caloia subisce nel '94 la manovra congiunta De Bonis-Castillo Lara (il cardinale allora presidente dell'Apsa - Amministrazione patrimonio della Santa Sede) per sostituirlo alla fine del mandato con l'americano Virgil Dechant. Castillo Lara preme anche perché lo Ior faccia merchandising religioso, ma Caloia si oppone. La spunta lui e de Bonis viene spedito a far da cappellano ai cavalieri di Malta.
Nel '99 altro assalto alla sua plancia di comando dello Ior, da parte del cardinale americano Edmund Szoka, che lo vuole sostituire con il presidente uscente della Bundesbank, Hans Tietmeyer. Caloia si salva di nuovo grazie all'appoggio del segretario del Papa, monsignor Stanislao Dziwisz. A un anno dalla scadenza del terzo mandato Caloia appare saldo sulla sella della banca del Papa.
Ma se lo Ior, dopo i momenti bui, è riuscito grazie alla guida di Caloia e di prelati lungimiranti a tornare "immacolato", non si può dire lo stesso di altre realtà fondate su finanza e religione, dove invece sembrano ancora regnare le ombre. «Il Gruppo Cultura Etica Finanza - scrive Giancarlo Galli nella conclusione del suo libro - ha in larga misura cessato di "far cultura". Non più libri, ricerche come quella sul "declino italiano" che viaggiano senza precise scadenze. Soggiacendo alle sottili lusinghe di patron Bazoli, s'è politicamente schierato a fianco del centrosinistra, in qualche momento financo aggregandosi all'iniziativa di "Libertà e Giustizia" sponsorizzata da Carlo De Benedetti. Dove sono finite le ricerche sulle origini del cattolicesimo sociale? In Roma-capitale, altri banchieri "bianchi" di spicco (dal governatore Antonio Fazio a Cesare Geronzi) sono nel mirino della magistratura. Lacune nella vigilanza, operazioni che hanno penalizzato la clientela... A dozzine, presidenti, amministratori delegati, direttori generali, funzionari di altissimo livello ricevono "avvisi di garanzia". "Atti dovuti", nel linguaggio giudiziario, e probabilmente avranno modo di dimostrare la loro innocenza. Tuttavia, milioni di risparmiatori, attraverso associazioni di autodifesa, manifestano la loro disapprovazione per l'operato delle banche. Il governo s'appresta (obtorto collo, consenziente anche l'opposizione) a varare provvedimenti a tutela del risparmio e di riforma della Banca d'Italia».
«Riprendiamo per l'ennesima volta l'affermazione di Angelo Caloia: "Il diavolo esiste, eccome!". Evidentemente, ha da averci messo la coda se un "sistema finanziario" dove esponenti del mondo cattolico presidiano tanti punti chiave non ha saputo arginare il dérapage affaristico. Ci si interroga sugli "errori tecnici" (l'avere ad esempio privilegiato le concentrazioni a spese della presenza sul territorio; l'eccessiva disponibilità per gli "amici", come nei casi Cirio e Parmalat). Ma quel che si delinea è soprattutto una Caporetto etica, che divide la stessa Chiesa. A Parma, don Luigi Scaccaglia, prete di frontiera, lancia una provocazione: "Tanzi ha dato i soldi per i restauri del Duomo? Dobbiamo trovare il modo di restituirli". Gli fa eco il parroco di Santa Cristina: "La famiglia Tanzi, è vero, faceva offerte, ma oggi si parla di quattrini rubati. Quindi dobbiamo cambiare rotta. La nostra Chiesa sarà credibile solo se povera e non collusa". Eppure, il buon vescovo parmigiano Cesare Silvio Bonicelli aveva invitato alla pacatezza: "La cosa più importante è pensare e cercare di capire, senza lasciarsi catturare dalle emozioni. Stare accanto a chiunque sia coinvolto, senza giudicare né escludere"».
«È possibile riflettere senza giudicare (sul terreno dell'etica)? Viene quasi da pensare che non poca parte di quel che ha seminato in oltre vent'anni Angelo Caloia - prima al Mediocredito lombardo con il Gruppo Cultura Etica Finanza, poi allo Ior - sia volato via, o beccato dai corvi di passaggio. Comunque, che qualche seme sia rimasto, e prenda presto a fruttificare, è più che un augurio, una speranza. Infatti, mai come nel nostro tempo vi è necessità di una "finanza bianca". Ben oltre, però, un'etichetta che si va rivelando in troppi casi di comodo».
«Sarebbe desolante constatare come, nonostante il cambio delle casacche di appartenenza, i comportamenti dei banchieri siano sempre gli stessi. Autoreferenziali nella sfera del potere, disinvolti nelle relazioni politiche, abili nel districarsi nella giungla di affari-affarismo, generosi coi ricchi, stemegna - tirchi - coi piccoli imprenditori. E i risparmiatori eterne pecorelle da tosare, ben poco evangelicamente».
«C'è da augurarsi, per il bene comune, trattarsi di una difficile, tormentata stagione di transizione. Verso una finanza davvero "etica". Parola che in Italia, al momento, ha il suono della campana stonata perché rotta. Molti conoscendone, valutando sincero il loro animo, si diano però da fare. E subito. Ha ragione da vendere il "Nanni" Bazoli quando plaude all'abbattimento degli steccati».
«Si tratta però di capire, nei comportamenti concreti, qual è il contributo che i "banchieri bianchi" possono fornire alla crescita della società. Senza arzigogolare, a costruirsi alibi, sulla spietatezza dei mercati. Sotto altri cieli, dagli Usa al Giappone, c'è chi sta provando. Attendiamo dunque che i "bianchi banchieri" di casa nostra raccolgano la sfida. Conquistato il potere, lo usino!».

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Il banchiere del papa racconta: “Ecco come ho risanato lo IOR”
Data Mercoledì, 20 Aprile 2005 - 11:31

Dopo quasi quindici anni di presidenza della banca vaticana, Angelo Caloia rompe il silenzio. Fa i nomi di amici e nemici. E accusa la finanza cattolica d’aver venduto l’anima per il potere.

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Giovanni Paolo II non s’è mai occupato di soldi, non ha un proprio conto in banca e tanto meno s’è arricchito. Ma lascerà al suo successore una lauta eredità: un Vaticano con i conti a posto, i profitti floridi, gli amministratori fidati.

Sono quattro, in Vaticano, gli uffici finanziari chiave. In ordine di importanza sono lo IOR, Istituto per le Opere di Religione; l’APSA, Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica; il Governatorato dello Stato della Città del Vaticano; la Prefettura degli Affari Economici. A capo di ciascuno c’è un cardinale. Ma con un’avvertenza. Perché allo IOR, la banca vaticana, c’è sì una commissione cardinalizia di vigilanza, con alla testa il segretario di stato Angelo Sodano, ma il vero uomo di comando è un’eminenza laica di 64 anni venuto dalla Lombardia, con moglie inglese e quattro figli, il banchiere Angelo Caloia.

Caloia è una leggenda di riservatezza ed è personaggio ai più sconosciuto. Ma per la finanza vaticana è il parallelo perfetto di quel che è il cardinale Camillo Ruini per il governo della Chiesa in Italia: l’uno e l’altro autori di una doppia rivoluzione.

Anche nelle date Caloia e Ruini hanno sempre viaggiato in parallelo. Diventano l’uno presidente dello IOR e l’altro presidente della conferenza episcopale all’inizio degli anni Novanta e, riconfermati di quinquennio in quinquennio, sono tuttora alla testa dei rispettivi organismi. Entrambi hanno cominciato le loro battaglie isolati, con molti più avversari che amici. Entrambi hanno vinto.

La differenza è che oggi Caloia ha deciso di rompere il silenzio: con tanto di nomi, giudizi, retroscena sulla sua storia di banchiere del papa, per la prima volta messi nero su bianco.

L’outing di Caloia è in un libro scritto da un suo amico e collaboratore d’antica data, Giancarlo Galli. Lo pubblica Mondadori, la stessa editrice dell’ultimo best seller del papa, ed è in vendita dal 22 giugno. Il titolo è “Finanza bianca” e si riferisce a quell’insieme di banche e banchieri cattolici che a Roma e in Italia hanno oggi accumulato un potere senza precedenti: con Antonio Fazio governatore della Banca d’Italia, con Cesare Geronzi dominus di Capitalia, con Giovanni Bazoli presidente di Banca Intesa, con i templi finanziari laici caduti nelle loro mani o assediati.

Caloia è parte di questa finanza bianca, è da lì che è venuto. Ma nel libro non la esalta per gli attuali trionfi. Anzi. La accusa d’aver venduto l’anima per ottenerli, d’aver smarrito la sua “identità cristiana”. La prova è nel coinvolgimento delle banche cattoliche nei colossali disastri di Parmalat, Cirio e simili: una “Caporetto etica” dalla quale invece, dice, è rimasto immune lo IOR. Partito isolato nella sua battaglia per ripulire e rilanciare la banca vaticana, Caloia lamenta oggi di ritrovarsi di nuovo solo, a far da baluardo di una finanza moralmente corretta.

Quando Caloia inizia la sua lunga marcia, nei primi anni Ottanta, il Vaticano è in pieno dissesto, al pari dei finanzieri cattolici con i quali aveva condotto pessimi affari: Michele Sindona e Roberto Calvi. Alla testa dello IOR regnano un arcivescovo americano, Paul Marcinkus, che Caloia definisce “facilone, pressapochista, mal consigliato”, e un prelato italiano che è tra gli autori di quei cattivi consigli, Donato De Bonis. Lo IOR è assediato dai creditori, e nel 1984 il cardinale Agostino Casaroli, il segretario di stato dell’epoca, li tacita una volta per tutte versando 406 milioni di dollari a titolo di “contributo volontario”, sfidando il parere contrario non solo di Marcinkus e De Bonis ma di quasi tutti i dirigenti vaticani.

Quello stesso anno, a Milano, anche la buona finanza cattolica decide di risalire la china. Lo fa dando vita a un Gruppo Cultura Etica Finanza. Si riunisce in via Broletto, a pochi passi dal Duomo, e di esso fa parte anche un vescovo, Attilio Nicora, ausiliare del cardinale Carlo Maria Martini. Nel gruppo figurano intellettuali destinati a ruoli di peso: come il gesuita GianPaolo Salvini, futuro direttore della “Civiltà Cattolica”, e Lorenzo Ornaghi, futuro rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Tra i banchieri, Bazoli è il predicatore più acceso della riscossa contro la finanza laica e il suo potentissimo nume Enrico Cuccia. A coordinare il tutto è Caloia, con Galli segretario.

Caloia è presidente del Mediocredito Lombardo e punta più in alto, alla CARIPLO, una delle più grosse Casse di Risparmio del mondo. Ma tra i cattolici c’è chi gli sbarra la strada, e nella curia di Milano gli rema contro monsignor Giuseppe Merisi. “Nemo propheta in patria”, dice oggi Caloia rievocando quella battaglia perduta. Perché invece che a Milano il suo futuro è a Roma. Nel 1987 e poi nel 1988 si presentano da lui emissari del Vaticano. A nome del cardinale Casaroli vogliono che prenda in pugno lo IOR.

Non solo. Casaroli gli chiede di riscrivere gli statuti della banca vaticana. Caloia accetta e si mette al lavoro. È fatta. Nel 1990 Giovanni Paolo II promulga i nuovi statuti, Marcinkus lascia Roma e si ritira in una parrocchia dell’Illinois, Caloia diventa presidente del nuovo consiglio di sovrintendenza dello IOR. A nominarlo sono gli altri quattro banchieri del consiglio: un tedesco, uno svizzero, uno spagnolo e un americano. Lo svizzero è Philippe De Weck, ex presidente dell’Union de Banques Suisses, vicino all’Opus Dei e frequentatore a Milano del Gruppo Cultura Etica Finanza. È lui il grande elettore di Caloia.

Ma alla macchina dello IOR resiste la vecchia guardia: il prelato De Bonis, il direttore generale Luigi Mennini, il ragioniere capo Pellegrino De Strobel. Questi due sono i primi a saltare. De Bonis non cede. A norma del nuovo statuto dovrebbe fare solo assistenza spirituale, in realtà continua i suoi affari come in passato.

De Bonis si allea in Vaticano con l’allora presidente dell’APSA, il cardinale Rosalio José Castillo Lara, e col segretario di quell’organismo, monsignor Gianni Danzi, e manovra per sostituire a Caloia, al termine del suo primo quinquennio di presidenza, un suo candidato, l’americano Virgil C. Dechant, dei Cavalieri di Colombo e grande finanziatore di Solidarnosc in Polonia. Castillo Lara e Danzi premono anche perché lo IOR faccia merchandising religioso. Caloia rifiuta e riceve dal cardinale una raffica di lettere al veleno. Ma alla fine la spunta. De Bonis è spedito a far da cappellano ai Cavalieri di Malta, Caloia è riconfermato presidente nel 1995 per altri cinque anni e Castillo Lara lascerà presto l’APSA.

Nel 1999, altra manovra. Questa volta il candidato a rimpiazzare Caloia è nientemeno che il presidente uscente della banca federale di Germania, la Bundesbank, Hans Tietmeyer, e il suo promotore è il cardinale americano Edmund Casimir Szoka, all’epoca presidente della Prefettura degli Affari Economici del Vaticano. A mettere sull’allarme Caloia è monsignor Renato Dardozzi, dell’Opus Dei. A una conferenza di Tietmeyer alla Pontificia Accademia delle Scienze, Caloia si alza a criticarne le tesi ultraliberiste. Tra i due scoccano scintille. Ma di nuovo è Caloia a vincere la sfida, forte anche dell’appoggio del segretario personale del papa, Stanislaw Dziwisz.

Nel 2000 Caloia è riconfermato presidente, e l’ultima parola a suo pro l’avrebbe detta Giovanni Paolo II: “Finché vivo io, mai un tedesco alle finanze vaticane”. Ma più che il cuore polacco, a convincere il papa sono i proventi dello IOR a lui devoluti ogni anno per opere di bene. Erano 15 miliardi di lire nel 1990, all’inizio della gestione Caloia. Oggi sono “molti, molti di più”.

Nel 2005 scadrà il terzo quinquennio di Caloia, e nessuno questa volta trama più per cacciarlo. All’APSA c’è ora il suo amico Nicora, divenuto cardinale, con segretario il vescovo Claudio Maria Celli, uomo di Casaroli e Sodano. Al Governatorato Szoka ha passato i limiti d’età e un candidato a succedergli è Carlo Maria Viganò, legatissimo a Sodano e Nicora. Resti o no Caloia presidente, il suo IOR, almeno questo, non passerà certo al nemico.

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I misteri della "finanza bianca"
Dallo Ior ai "banchieri di Dio"

Dalla fondazione dello Ior, la "banca del Papa", fino al crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, la storia moderna insegna che tra Chiesa e mondo degli affari esistono rapporti forti. Da questo intreccio sono nati tanti misteri che hanno appassionato le cronache economiche del Belpaese e che ora Giancarlo Galli ripercorre nel suo lucido e documentato libro-inchiesta "Finanza bianca", edito da Mondadori.

Una vera “doccia fredda” per chi ancora, un po’ ingenuamente, si ostina ad avere una visione evangelica della Chiesa cattolica. “Il Vaticano è l’unica teocrazia a possedere una propria banca di livello mondiale”: da questa considerazione parte Galli per dimostrare che il legame tra religione e affari è profondo e simbiotico.

Partendo dalla storia, dalla dissoluzione dello Stato Pontificio, si ripercorrono le tappe che portano la Curia romana, ormai ufficialmente privata del suo potere temporale, a costruire un potere finanziario. Un potere nuovo, ma comunque forte e che vive soprattutto di relazioni e sfere di influenza.

Ne emerge un quadro in cui gli uomini del Vaticano dimostrano di sapersi muovere molto abilmente sullo scenario internazionale degli affari. Al centro di un sistema che può contare su tante pedine di alto livello. Lo Ior è il cuore della potente e onnivora “finanza bianca”, i “banchieri di Dio” sono le figure di riferimento nei grandi gruppi creditizi non solo italiani.

Insomma, nella Chiesa di cui ci parla Galli si fa davvero fatica a ritrovare tracce dello spirito pauperistico delle origini cristiane o della tradizione francescana. C’è piuttosto il trionfo di un approccio pragmatico che ricorda la “realpolitik” di Bismarck o gli insegnamenti del Guicciardini. E il Vaticano finisce inesorabilmente per assomigliare ad una holding. Gestita con grande maestria unita ad una discreta dose di spregiudicatezza.

Certo, oggi lo Ior non è più quello degli anni settanta e ottanta, oggi non è più in servizio un uomo come Marcinkus, ma chi pensa che la finanza bianca sia finita dovrebbe rileggersi, molto attentamente, la vicenda Parmalat.

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L'autore mette in guardia i lettori: «Sarà un volume indigesto per i benpensanti e per molti esponenti dell'Alta finanza»
«Qualcuno s'è dimenticato dei Comandamenti»

Pubblichiamo del libro di Giancarlo Galli Finanza bianca la prefazione, intitolata "A uso del lettore".
GIANCARLO GALLI
Il lettore sia avvertito. Le pagine che s'appresta a sfogliare hanno tutte le caratteristiche per risultare acide e fastidiose. Indigeste al fariseismo dei cosiddetti benpensanti, mentre liberi pensatori e anticlericali non verranno gratificati con scoop o sconvolgenti rivelazioni. Quanto agli esponenti dell'Alta finanza, nella stragrande maggioranza ne avrebbero volentieri fatto a meno. Per questo ho da esprimere la massima gratitudine a quei pochi che, infrangendo il tabù del silenzio, mi hanno fornito aiuto. Col nobile intento di servire la Verità. L'impresa è di quelle che generano fibrillazioni e fanno accartocciare le budella: pretendere di scandagliare le connessioni fra religione e finanza, ecclesiastici e banchieri. Senza intenti moralistici o scandalistici, ma unicamente per capire (ammesso sia possibile) quello che avviene nella più misteriosa fra le galassie terrene.
D'altronde il libro è, in vari aspetti e risvolti, il giornale di bordo di un cronista che, per quasi mezzo secolo, ha navigato sulle rotte dell'Alta finanza, incrociando ammiragli in feluca e corsari, tonache lunghe con bottoniera rossa benedicenti i vascelli in partenza e arrivo, salvo sostenere che "solo per caso" si trovavano sul molo, o in plancia...
Sappia da subito il lettore che, a parte qualche doveroso accenno retrospettivo (gli intrecci fra religione e danaro affondano le radici nella millenaria storia dell'umanità), qui ci occuperemo del passato prossimo e, soprattutto, del presente, un "presente" nel quale il problema è emerso in tutta la sua dimensione planetaria. Specie dopo 1'11 settembre 2001, quando s'è dovuto pubblicamente ammettere che il terrorismo internazionale di matrice islamica si finanziava attraverso i circuiti dei mercati capitalistici, godendo di connivenze d'ogni sorta.
Purtroppo, di tali intrecci s'è scritto e detto assai poco, se si trascura la pamphlettistica specializzata in dietrologia, il che ha favorito la formazione di un gigantesco "buco nero", come si dice in astrofisica, ovvero uno scontro fra materia e ideologia. È invece necessario ragionare sui perché, in piena età moderna, un papa di Roma, un mullah o un rabbino possano far tremare Wall Street e la City.
La finanza ama proclamarsi laica, facendo suo quel principio che vorrebbe escludere ogni influenza della religione dalla vita e dalle istituzioni politiche, civili, economiche. E un po' tutti in Occidente e in Asia (non però nell'lslam), credenti o meno, ne esaltiamo la laicità.
Vero o falso? Il dubbio m'ha colto non una ma cento, mille volte, allorché da New York a Londra, da Parigi a Tokyo (e, ovviamente, da Milano a Roma), ho sentito non sussurrare ma sostenere: A ha alle spalle la finanza ebraica, B quella cattolica, C quella protestante, Y manovra i petrodollari islamici... E gli atei, gli agnostici, ben presenti nelle schiere degli gnomi? Nemmeno loro potevano prescindere da ascendenze e referenze.
Se le parole hanno un senso, stretti rapporti tra finanza e religioni esistono. Esistendo, occorre stabilire in cosa si concretizzano. Fossi nato e cresciuto sotto altri cieli, avrei probabilmente privilegiato l'analisi del rapporto fede-danaro in emisferi diversi. Avrei forse seguito le orme di Max Weber, che fa del protestantesimo la culla del moderno capitalismo anglosassone. O accettato il disinteresse indù, buddista e confuciano per il maneggio della ricchezza. Oppure, figlio dell'Islam, sarei stato indotto a coniugare l'opportunismo delle classi dirigenti con la sharia.
Le radici cristiane e cattoliche m'hanno portato invece a focalizzare lo sguardo su quanto avviene sotto l'usbergo di Santa Romana Chiesa, con una speciale attenzione all'Italia e al Vaticano.
Nel novero delle potenze mondiali, l'Italia occupa una posizione economicamente e finanziariamente secondaria, sebbene non irrilevante. Se passiamo dal materiale allo spirituale, il suo prestigio e la sua influenza appaiono invece di primissima grandezza. Le parole del Santo Padre sono pietre. I suoi strali contro il capitalismo, il consumismo, il culto della ricchezza fanno tremare le vene ai credenti. Ma dopo i fremiti e le contrizioni, che accade? E, questione non marginale, in che modo si caratterizza lo Ior, l'Istituto per le Opere di Religione, la banca del Vaticano? Tanto più che, e non è un "dettaglio", il cattolicesimo è l'unica religione a disporre di una "propria" banca.
Eccoci pertanto di fronte all'intrigante questione che costituirà la parte centrale, dominante, del libro: al di là degli auspici del pontefice, lo Ior è davvero una "banca cristiana"? Ancora: i tanti banchieri che in Italia ed Europa proclamano la loro fedeltà alla dottrina sociale della Chiesa, come si distinguono dai colleghi laici?
Il lettore avrà compreso, quantomeno intuito, il nostro intento: cercare di gettare un fascio di luce sul terreno, nebbioso e inesplorato, delle relazioni intercorrenti fra religione e finanza. Per i cattolici, fra il "sono timorato di Dio" e il "faccio i soldi", insomma fra Dio e Mammona. Risultando assolutamente falso che il danaro sia lo sterco del demonio, come spesso qualcuno vuol far credere; trattandosi piuttosto di un buon concime che, se ecologicamente usato (in senso etico), può aiutare l'umanità a crescere nel segno di una maggiore giustizia distributiva.
Purtroppo, negli ultimi tempi, nella galassia finanziaria italiana si sono verificati ben poco edificanti eventi. Ci riferiamo agli ottocentomila piccoli risparmiatori che hanno perso tutto con i bond argentini, i crac Cirio e Parmalat. E non per colpa del "cinico mercato", ma in quanto anche alcuni "buoni cattolici" s'erano dimenticati dei Comandamenti, dal "non rubare" al "non rendere falsa testimonianza", o erano incorsi nel mortale "peccato d'omissione", cioè non avevano effettuato i controlli cui erano preposti.
Il che fa temere il ripetersi di errori che speravamo relegati nel passato. Dando fiato all'interrogativo che molti laici propongono: è davvero senza macchie la nuovissima "finanza bianca"?