venerdì, maggio 06, 2005

La Storia Proibita

dalla PRESENTAZIONE de "La Storia Proibita"
a cura di NICOLA ZITARA

Come collettività nazionale, siamo considerati il paese piú subdolo del mondo. E, in effetti, lo siamo.

Si tratta di un vizio antico, spesso sanzionato dagli stessi italiani, a cominciare dal padre Dante, elogiato, invece, da Machiavelli. Bisogna aggiungere, però, che la disistima degli altri popoli europei, se, un tempo, coinvolgeva i signori regionali, la curia romana, i soldati di ventura e il personale politico che si metteva al servizio di monarchi stranieri, toccava molto meno i meridionali. Al Sud, l'ipocrisia politica è un malcostume acquisito per contagio. La sua prima manifestazione ha una data ben precisa, i fatti del 1799, allorché la concezione borghese della proprietà piena e assoluta si scontrò con la vitale esigenza dei contadini a tenere in vita le antiche forme di godimento promiscuo della terra.

La patriottica campagna denigratoria dell'uomo meridionale ebbe un corposo seguito al tempo della conquista del Sud. Cominciò, Cesare Abba, seguirono Francesco De Sanctis e Pasquale Villari. Edmondo De Amicis e Renato Fucini vi aggiunsero un tocco di elegante scrittura, la testa bovina di Cesare Lombroso inquadrò il tema in termini scientifici. Poi, rinsaldatosi lo Stato unitario, la cosa passò in mano agli stessi meridionali, quelli reputati piú illustri, come voscienza Giovanni Verga e il plurimiliardario don Benedetto Croce (fotte e chiagne). Dopo la seconda guerra mondiale, avendo letto Gramsci, il Principe di Lampedusa e tutta un'orda di maestri della penna e della macchina da presa trovarono che era pagante l'intingere nel brodo dell'arretratezza sudica.

La corale e patriottica condanna dei sudici e acefali meridionali s'intrecciò - non proprio per caso - con la sistematica diffamazione dell'intera dinastia dei Borbone di Napoli, con calunnie confezionate nelle logge massoniche nazionali e forestiere.

Probabilmente l'uso della facezia in un tema di sí grande portata farà rizzare il pelo alle anime belle, ma la cinica ed interessata ipocrisia che insozza gli ultimi due secoli di storia nazionale italiana merita non solo d'essere demistificata, ma anche irrisa e beffata.

Nella prima metà del XX secolo la nuova classe dei capitalisti agrari, industriali e finanziari, oltre a mal sopportare il proletariato divoratore di pane - una terribile remora all'accumulazione di profitti - mostrava una grande avversione per quei re che si ostinavano a non cederle il potere.

I re di Napoli erano fra i piú coriacei, e non solo perché si autogiudicavano degli unti del Signore, ma anche perché erano convinti che le modernizzazioni non si dovessero obbligatoriamente accompagnare alla pauperizzazione capitalistica. Ma la calunnia è un venticello. Attraverso la stampa londinese e le missioni all'estero dei suoi leader mondiali, il partito dell'avvento dei capitasti al potere e della fame popolare ebbe l'abilità di caricare l'aggettivo borbonico di un segno fortemente negativo. Al buon esito della macchinazione, fece da supporto subliminale l'antagonismo tra il predace mondo anglosassone e la quieta civiltà mediterranea.

Siccome il contenuto negativo, insufflato nell'aggettivo borbonico, faceva comodo ai a chi governava l'Italia unita in senso antimeridionale, le sue radici vennero rincalzate con insolita diligenza, cosicché l'ortica continua a provocare il prurito. Tuttora un'imposta particolarmente oppressiva viene definita borbonica. Una burocrazia poco funzionante viene raffigurata come borbonica. Un padrone antiquato ed esoso subisce identica censura e viene accusato di borbonismo. Ancora oggi i Borbone sono considerati la negazione di Dio, i nemici più fieri e accaniti della modernità, della civiltà, della democrazia politica, della giustizia sociale, del progresso culturale, della libertà di pensiero. Le loro carceri erano infami, e cosí pure la loro polizia; i loro ministri erano degli autentici carnefici; gli stessi re dei feroci buffoni. Per opposizione logica, i loro avversari godono della palma di patrioti, di persone che si prodigarono fino al martirio per la libertà del popolo meridionale e per la grandezza d'Italia; a loro viene attribuito il merito di aver salvato il Meridione, altrimenti condannato all'arretratezza, all'improduttività, all'ignoranza.

Quanto detto salvataggio sia stato proficuo, è inutile dire: la cosa è sotto gli occhi di tutti. Non si tratta, però, di una fotografia stampata su un cartoncino. La perdizione dei salvati dall'assunto naufragio non migliora minimamente, anzi ci sono del momenti in cui peggiora fortemente. Nell'analisi dei processi sociali attraverso cui il passato è divenuto questo presente infame (e non uno diverso), c'è qualcosa che resta ancora in ombra. Si tratta della ragione politica in forza della quale un castello di bugie regge da centoquarant'anni e tuttora allunga la sua ombra maligna sulla prosa giornalistica, sulla comunicazione mediatica e persino sui testi accademici. A ben vedere, la dinastia borbonica è ormai un ricordo vecchio di un secolo e mezzo. Nelle quotidianità, le sue tracce dovrebbero essere evaporate, come quelle dei Lorena, degli Estensi, del papa-re, dell'imperatore d'Austria. Allora perché anche gli attuali mali del Sud sono da imputare ai Borbone? Se Genova viene sommersa dall'acqua e dai detriti dei torrenti, a nessuno viene in mente di chiamare in causa Carlo Alberto o la Compagnia di San Giorgio. Se a Firenze accade la stessa cosa, nessuno si mette a sciorinare le responsabilità del granduca. Non è, per caso, che le colpe dei Borbone facciano il paio con quella mancanza di voglia di lavorare o con il familismo amorale per cui i meridionali siamo stati resi famosi in Italia?

La spiegazione c'è, ma si ha un pressante interesse a tenerla nascosta. Essa consiste nel rovesciamento delle responsabilità, nella precostituzione di un alibi a favore del vero colpevole.

Ormai vediamo una tale quantità di film gialli che ciascuno di noi può impancarsi a Sherlock Holmes. Garibaldi era ancora a Napoli, l'intrepido re del Regno di Sardegna non era ancora sceso attraverso le Marche e l'Abruzzo a prendere possesso della nuova conquista, che le classi proprietarie meridionali si rendevano conto d'avere commesso un errore grossolano, un atto controproducente, svendendo - immediatamente dopo la vittoria di Napoleone III sull'Austria - la dinastia borbonica e l'indipendenza del paese meridionale (qui stiamo attenti: non tanto ai Savoia, quanto) alla classe dirigente toscopadana.

Dal canto loro i contadini, gli artigiani, gli sbandati dell'esercito borbonico, piccoli e grandi proprietari, sacerdoti, professionisti e massari delle province insorgevano contro l'invasore, accendendo una guerra per bande.

Io non so dire se chi aveva il potere a Torino si pose veramente il problema di lasciare il Sud conquistato. A riguardo si ha solo qualche dato, per esempio un articolo di Massimo d'Azeglio, nel quale l'ex primo ministro sabaudo propone una specie di referendum pro o contro l'unità, da svolgersi fra i meridionali.

La proposta non ebbe eco presso la destra moderata, che era al governo, né tantomeno presso le varie correnti di sinistra, fortemente unitarie. Sta di fatto che, nonostante il malumore si diffondesse fra tutte le classi e nonostante la rivolta contadina andasse assumendo le dimensioni di una rivoluzione popolare, gli uomini che avevano la direzione del nuovo Stato non erano piú nella condizione di tornare indietro e di restituire la libertà agli italiani del Sud. Il re, che adesso aveva contro non solo l'Austria, ma anche la Francia, non avrebbe potuto declinare a cuor leggero il trono di una potenza in fieri di dimensioni europee. Dal canto loro i comandi militari, che si prospettavano un grosso esercito e un'armata navale capace di fronteggiare sia la flotta austriaca sia, eventualmente, quella francese, sapevano che l'erario sabaudo non bastava alla bisogna. La base imponibile, passata, in meno di due anni, da cinque a ventitré milioni di contribuenti, non poteva venire revocata. L'apporto della Lombardia, della Toscana, dei Presidi e di gran parte dello Stato della Chiesa era stato divorato in un lampo dalla voragine debitoria che le iniziative cavouriane avevano prodotto nel bilancio sabaudo. Per giunta, il nuovo Stato si rivelava piú costoso di tutti gli ex Stati conquistati, messi assieme. Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la banca ligure-piemontese. La montagna d'argento circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete metalliche, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d'emissione sarda - che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni - avrebbe potuto costruire un castello di moneta bancaria alto tre miliardi. Come il Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino non tessevano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l'unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'erano messi.

C'erano poi l'Inghilterra, contraria all'ipotesi che la Francia avesse altro spazio nel Mediterraneo, e non ultimi gli affaristi che badavano solo ad arricchirsi. Dal loro punto di vista, l'allargamento del Regno di Sardegna all'intera Italia era una manna: aveva fatto calare dal cielo, attraverso miracolosi processi, un mercato pari in ampiezza a quello britannico e a quello francese, ma tutto ancora da riempire di speculazioni. In tale clima, i progetti stradali e ferroviari saltavano fuori dai loro portafogli e dai portafogli dei mediatori sardi dei banchieri inglesi e francesi come i piccioni dal cappello di un prestigiatore.

Insomma, nel quadro della politica liberista e allo stesso tempo espansionista (protezionismo dall'interno, la definì Francesco Ferrara) impostata, ed imposta, da Cavour, il paese meridionale, con i suoi nove milioni di abitanti, con il suo immenso risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva una gran risorsa. Invece il Sud borbonico era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell'economia nazionale.

La retorica unitaria, che copre interessi particolari, non deve trarci in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all'intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l'uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un'autosconfessione. Quando, alle fine, vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo. Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non aveva bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate. L'agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all'esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò del tutto una crescita e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali.

Prima ancora che si riunisse il parlamento nazionale (marzo 1861), il paese meridionale mandava segnali ben visibili d'insofferenza. Chi vuol farsi un'idea dei sentimenti aleggianti nell'aria appena un mese e mezzo dopo la resa di Gaeta, legga l'intervento parlamentare del deputato napoletano Polsinelli - un antiborbonico che usciva del carcere - a proposito del dictat cavouriano in materia di tariffe doganali. E' un documento molto istruttivo!

Il Sud borbonico era un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piú avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento di industrie, le quali, diversamente dalle favole sabaudiste raccontate dagli accademici circonfusi di alloro, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e incapaci a proiettarsi sul mercato internazionale, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni).

Niente di piú la storia effettiva, non è impresa facile in un ambiente in cui il falso è glorificato come patriottismo. Farla conoscere è ancora più arduo, perché la verità si scontra con una falsificazione istillata nella mente dei fanciulli insieme al catechismo.

In quest'opera di recupero, che coinvolge animi generosi e autentici patrioti, gli autori non hanno messo soltanto la passione che il lettore vede zampillare da ogni frase, ma alquanta sagacia; la sagacia di chi vuole comunicare una fede, e che pertanto scrive per farsi leggere.

Nel libro, le informazioni arrivano come le raffiche di una mitragliatrice che non s'inceppa. Bastano le prime venti pagine per stendere l'avversario.

E' vendetta, rivalsa, giustizia sommaria? No, è la dignità di patria nata nel cuore di persone coraggiose. Ed è un'arma terribilmente efficace, in quanto arma a sua volta il cuore degli altri.

Nicola Zitara